Massimo Remorini è libero e si racconta dopo sei mesi di carcere.

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Dimagrito oltre 15 chili, è quasi irriconoscibile Massimo Remorini dopo sei mesi di carcere.

Arrestato il 21 febbraio, con l'accusa di circonvenzione di incapace, sequestro di persona e distruzione e soppressione di cadavere, nell'inchiesta sulla scomparsa dal campo di Torre del Lago di Claudia Velia Carmazzi e Maddalena Semeraro, è uscito per decorrenza dei termini: anche se la Procura aveva chiesto la proroga della misura cautelare, ma il Gip Marcella Spadaricci ha accolto la tesi degli avvocati Giorgio Paolini e Carlo Di Bugno, e ne ha ordinato l'immediata scarcerazione.

Sei mesi di cella che hanno pesato sul suo fisico ma anche sul morale.
Stanco, e provato, è tornato a casa sabato mattina. Sereno.
E soprattutto felice di poter abbracciare per la prima volta l'ultimo nipotino, quello nato durante la sua permanenza a San Giorgio, e coccolarlo, assieme agli altri due, come fa un nonno.

E' trascorso tra le mura della sua casa il primo giorno di libertà poi, domenica, lo “zio” ha fatto un salto al chiosco sul viale dei Tigli, per brindare con gli amici e trascorrere la serata con la sua famiglia.

Seduto a un tavolino, tra un gioco e l'altro con i tre nipoti, una femminuccia e due maschietti che non lo hanno lasciato solo un attimo, si lascia andare a qualche parola. “Sono stati sei mesi in cella da innocente – inizia cosi la conversazione -, e il primo giorno è stato il più terribile, sono stato un “sorvegliato speciale”. Per il timore che potesse suicidarsi. Ha davvero pensato di uccidersi? “Si, per due volte – ammette Remorini. La prima alle una e mezzo di notte, tanto che le guardie penitenziarie dovettero farlo uscire di cella, portarlo in infermeria e fargli somministrare molte gocce di sedativo. Ma di sedativi ne ha dovuto far uso per tutti e sei mesi. “Non riuscivo a darmi pace, sono stato messo dentro ma non ho fatto nulla.

L'unico motivo per cui non mi sono ammazzato è la mia innocenza, che voglio dimostrare fino in fondo”. E poi la fede in Dio gli ha dato un forte sostegno: “La vedi questa croce di legno che porto al collo?”, mi chiede. “Me l'ha regalata il cappellano del carcere, che l'ha pure benedetta con l'acqua santa. Non me la sono mai tolta, e mai la toglierò”. “Non vado in chiesa – ammette – ma parlo con Dio, come un amico”. Lui, l'amico Dio, lo ha salvato due volte dalla morte, dopo due incidenti sul camion. Come passava le lunghe giornate dietro le sbarre? “ Dormendo e fumando”. Tre pacchetti di sigarette al giorno.

E racconta di giorni trascorsi a leggere i giornali, e soprattutto gli articoli che lo riguardavano. Tutti. Dal primo all'ultimo. “Voi avete fatto il vostro dovere. Ma la verità non è quella che avete scritto. Quella è un'altra. E la saprete presto, afferma. Ma per ora nessuna anticipazione. Prima parleranno gli avvocati. E gli atti.

I sei mesi nel penitenziario lucchese non sono stati una passeggiata, e meno che mai una vacanza, anche se è sempre andato d'accordo con tutti e, dice, persino gli agenti gli volevano tutti bene. “Ma sono stati mesi orribili, come vivere in una bara chiusa da vivo. Con nelle orecchie una sola musica infernale, quelle delle chiavi delle celle”. Ma la forza, a quanto pare, non gli è mancata, e anzi, ora, ne ha di più: “In carcere – precisa lo “zio” - se vuoi morire muori, se vuoi vivere vivi”.

E lui, Massimo Remorini, ha deciso di farcela: “ Per la verità". "Preparatevi a scirvere - annuncia - ci saranno novità".


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